Quale periodo migliore di quello delle vacanze per vedere nei cinema all’aperto – che spopolano nelle mete turistiche – i film validi, ma “persi” qualche inverno prima? O, altrimenti, “recuperarli” in vhs o dvd e scoprirli al “fresco” nella propria abitazione?
Se nel numero 3 di LucidaMente (Sentimenti europei…), avevamo segnalato alcune opere della filmografia europea, schiacciate dalle produzioni più commerciali, adesso tocca al cinema Usa. Molti film, infatti, vengono spesso liquidati frettolosamente da un mercato, quello americano, che, nella propria prolificità, trova, allo stesso tempo, un punto forte ed uno debole. Se, da un lato, la scelta diviene oggettivamente ampia, dall’altro diversi prodotti hanno raramente l’occasione di essere “scoperti” dagli spettatori, perché poco pubblicizzati oppure oscurati da lungometraggi più recenti.
Tra le tante “vittime” di un circuito che fagocita se stesso, abbiamo scelto quattro film, ancora molto attuali per le tematiche che affrontano: i rapporti interpersonali, la politica, il mondo del giornalismo.
Anche in questi casi – ripetiamo -, invitiamo i nostri lettori che non li hanno ancora visti a trovare il modo di farlo.
Segreti e bugie del giornalismo – Un giornalista che inventava i suoi pezzi, pubblicati sulle più prestigiose riviste americane; redazioni ignare e inconsapevolmente compiacenti; un direttore che mette a rischio la credibilità del suo giornale per scoprire e denunciare la verità. Sembrerebbero, questi, spunti per un racconto morale sul mondo del giornalismo, invece si tratta di una incredibile storia vera che viene raccontata nel film L’inventore di favole (Shattered Glass, 2003). La vicenda è quella di Stephen Glass, ventiseienne redattore dell’influente rivista di politica The New Republic, letta sull’Air Force One, l’aereo del presidente degli Stati Uniti. Con una lunga serie di scoop, Glass, verso la metà degli anni Novanta, riuscì a conquistarsi il rispetto dell’ambiente giornalistico americano, diventando anche un richiestissimo free lance per riviste come Rolling Stone, Harper’s e George. La continua pressione, l’ingenuità giovanile e l’ambizione portarono Glass a inventarsi i contenuti di circa metà dei suoi articoli. Malgrado i (blandi) controlli sulla veridicità delle fonti, ad opera delle importanti redazioni presso le quali collaborava, il giornalista non fu mai scoperto fino a quando non pubblicò uno scottante (e, naturalmente, falso) articolo sul mondo degli hacker informatici. Fu allora che una piccola rivista on line, la Forbes Digital Tool, incuriosita da quell’articolo, iniziò delle indagini sulle notizie riportate da Glass, scoprendo che erano tutte false. Insospettito ed allarmato, Chuk Lane, direttore di The New Republic, decise di ricontrollare anche tutti i precedenti articoli di Glass, accorgendosi che moltissimi erano stati inventati di sana pianta. Pur consapevole del probabile danno d’immagine che ne sarebbe conseguito, Lane decise di licenziare il collaboratore e di raccontare la verità ai propri lettori, attraverso una lettera aperta di scuse.
“L’arte di cogliere i comportamenti” – Il film segue puntigliosamente tutte le tappe della vicenda di Glass, un giovane e promettente giornalista che aveva saputo incantare tutti con i suoi modi discreti, la sua scrittura geniale e ironica, le sue spiccate doti affabulatorie. Il regista Billy Ray porta lo spettatore all’interno delle redazioni, nel cuore delle notizie, insieme a giovani giornalisti idealisti che volevano ancora credere nella possibilità che il giornalismo potesse aiutare le coscienze individuali e collettive a crescere. Stephen Glass riuscì ad ingannare tutti perché interpretava, attraverso i suoi articoli, i sogni, le speranze e le paure degli americani. Egli scriveva esattamente le cose che i lettori desideravano leggere. Era riuscito, inoltre, ad “ingraziarsi” tutti i suoi colleghi, con i suoi modi gentili e modesti, ben realizzando un suo pensiero, secondo il quale “il giornalismo è l’arte di cogliere i comportamenti”. L’opera è una serrata parabola sul mondo del giornalismo e sui suoi meccanismi. Ma si parla anche di etica e di morale, e del male nero che si impossessa delle anime ambiziose. Non stupisce che in un Paese come gli Stati Uniti si sia potuta compiere una simile vicenda. Oggi, Glass è un ricco avvocato, e ha pubblicato un libro di successo nel quale racconta la sua storia di “inventore di favole”. In America, vendere illusioni è ancora redditizio.
Il tramonto dei sogni – Celine e Jesse, una ragazza francese e un giovane americano, si incontrano su un treno. Non si conoscono, ma decidono, ugualmente, di passare una giornata insieme a Vienna. Tra chiacchiere in libertà e tanti discorsi sulla vita, i due trascorrono un giorno intenso e, alla fine, senza lasciarsi nessun recapito, si promettono di ritrovarsi, sei mesi dopo, nella stessa città. Era il 1995, e Prima dell’alba (Before Sunrise) di Richard Linklater divenne un film cult per una intera generazione di ventenni che si riconoscevano nei due romantici protagonisti. Nove anni dopo, il medesimo regista ha realizzato il seguito di quel film così fortemente “generazionale”: Before Sunset-Prima del tramonto (Before Sunset, 2004). La promessa di ritrovarsi di nuovo entro sei mesi è stata disattesa. Molto tempo è passato e, ormai adulti, Jesse e Celine si incontrano a Parigi, dove lui, che nel frattempo è diventato uno scrittore, presenta il suo best seller, nel quale ha raccontato la sua breve esperienza con la ragazza.
Un’elegia dei sentimenti – Pur separati da vissuti diversi, i due ritrovano l’antico feeling e, in una città complice e solare, riprendono a scambiarsi sensazioni ed esperienze. I ricordi li inseguono, insieme al desiderio di recuperare il tempo perduto, ma anche, finalmente, di scoprirsi, consapevoli che già troppi momenti sono scivolati via, senza possibilità di essere reciprocamente condivisi. Sostenuto da dialoghi “leggeri” e intriganti, il film è un’autentica elegia dei sentimenti, interpretato, tra l’altro, con grande bravura. Before Sunset è un fiume in piena di parole, di concetti, di massime sulla vita e sull’amore che si susseguono senza un ordine preciso. Caotici, disordinati e imprevedibili, i discorsi tra i protagonisti prendono le vie dettate dal cuore, attraversando i vicoli della mente, che archivia il passato, traslandolo in una sorta di romantico romanzo.
Le trame del potere – I giochi di potere della politica americana sono al centro del film di Jonathan Demme, The Manchurian candidate (2004). L’opera del pluripremiato autore de Il silenzio degli innocenti (1991) è un remake di un’opera del 1962, Va’ e uccidi, diretto da John Frankenheimer e basato su un romanzo di Richard Condon. La storia è incentrata su due personaggi, Ben Marco e Richard Shaw, entrambi reduci della Guerra del Golfo. Le loro vite – segnate da una tragica missione in Iraq, durante la quale sono avvenuti misteriosi e irrisolti episodi – hanno preso strade differenti: Marco è diventato un maggiore dell’esercito, affetto da incubi ricorrenti, facilmente catalogati nella cosiddetta “Sindrome del Golfo”, mentre Shaw è un giovane politico candidato alla vice presidenza degli Stati Uniti. Letteralmente “programmato” per vincere (ha subìto un lavaggio del cervello, che lo rende “ostaggio” della volontà e degli interessi del fondo monetario denominato Manchurian), Shaw commette le peggiori nefandezze pur di conquistare il potere, spinto anche dalla ambiziosa madre senatrice.
Una fantapolitica “realistica” – Il film è un credibile spaccato degli intricati meccanismi che regolano la politica americana. Pur trattandosi di fantapolitica, riesce ad illustrare bene le (reali) connessioni e i pericolosi intrecci che legano i politici alle grandi multinazionali che, come è stato ampiamente dimostrato, sono le vere fautrici delle scelte di politica interna ed estera negli Stati Uniti, e non solo. Esso affronta anche le paure legate al nuovo terrorismo, sottolineando come queste vengano strumentalizzate per generare e accrescere l’odio più profondo nei confronti del mondo islamico, in favore di una oggi sempre più traballante supremazia americana. Tra ambizione e potere, interessi economici e politica, Demme dirige una storia tanto incredibile quanto (purtroppo) reale, dimostrando come il cinema sia, ancora una volta, capace di raccontare lucidamente una pagina di storia attuale.
Una famiglia allargata – L’opera d’esordio del regista teatrale Michael Mayer, Una casa alla fine del mondo (A home at the end of the world, 2004), si basa su un curioso triangolo sentimentale che, in un’America ingenua e puritana, si snoda a partire dagli anni Sessanta e arriva fino ai reaganiani anni Ottanta. Il film segue l’evoluzione del rapporto tra due ragazzi – Bobby e Jonathan – che trascorrono la propria adolescenza a Cleveland. Caratterialmente affini – il primo è problematico ed introverso, mentre il secondo è timido ed insicuro -, i due instaurano un’amicizia solida e profonda che li porta ad affrontare insieme le avversità di una vita vissuta da “diversi”. Il rapporto con l’amico aiuta Jonathan a scoprire e ad accettare la propria omosessualità, mentre Bobby ritrova il calore di una famiglia in quella di Jonathan, dopo che un destino crudele gli ha strappato la sua. Ormai adulti, si ritrovano a vivere nella cosmopolita New York insieme a Clare, un’artista innamorata di entrambi i ragazzi, che avrà, però, una figlia da Bobby. Alla ricerca di un posto, una casa, “alla fine del mondo” caotico, Jonathan, Clare e Bobby si trasferiscono in una città di provincia, conducendo una poco convenzionale esistenza “a tre”.
Ironia e delicatezza per trattare la “diversità” – Tratto dal primo romanzo di Michael Cunningham (il celebrato autore del best seller The hours), Una casa alla fine del mondo è stato sceneggiato dallo stesso scrittore, che, nella trasposizione cinematografica del suo libro, ha scelto una maggiore semplificazione della trama rispetto a quella originale del romanzo. Nel testo di Cunningham, infatti, la vita dei protagonisti è analizzata attraverso i quattro punti di vista di Clare, Bobby, Jonathan e della madre di quest’ultimo, Alice, un personaggio centrale nel libro, è marginale nel film. Il lungometraggio si concentra soltanto su Bobby e, attraverso la sua parabola personale, racconta incidentalmente gli avvenimenti che caratterizzano l’esistenza degli altri protagonisti. Con una simile impostazione, inevitabilmente, molti snodi psicologici vengono meno, ma il film, malgrado il mancato approfondimento di alcune situazioni, è un’opera che, comunque, con ironia e delicatezza, riesce ad affrontare temi difficili e importanti come quello della “diversità”.
L’immagine: locandina di Una casa alla fine del mondo.
Angela Luisa Garofalo
(LucidaMente, anno I, n. 8, agosto 2006)