Il “Gandhi italiano” scrisse nel 1967 un importante saggio – ancora di grande attualità – sulle proteste non violente. In occasione della cinquantesima “Marcia per la pace e la fratellanza fra i popoli” (Perugia-Assisi, domenica 25 settembre 2011), da lui ideata, ne ricordiamo la figura
«Nella grossa questione del rapporto tra il mezzo e il fine, la nonviolenza porta il suo contributo in quanto indica che il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso l’amore, il fine dell’onestà con mezzi onesti, il fine della pace non attraverso la vecchia legge di effetto tanto instabile: “Se vuoi la pace, prepara la guerra”, ma attraverso un’altra legge: “Durante la pace, prepara la pace”».
Aldo Capitini
(da La tecnica della nonviolenza, edizioni dell’asino, 2009)
LA RILETTURA
Oppositore del fascismo, pacifista, critico della partitocrazia, fautore dell’obiezione di coscienza al servizio di leva, uomo di grande cultura. Questo è stato Aldo Capitini (1899-1968), intellettuale perugino engagè, definito il “Gandhi italiano”, ma ormai scivolato nell’oblio, al pari di tanti altri illustri pensatori nostrani.
Vegetariano e antifascista – Capitini compie da ragazzo studi tecnici, per poi dedicarsi da autodidatta a quelli classici e nel 1924 consegue la maturità liceale. Profondamente religioso, egli legge in quegli anni gli scritti di Gandhi e Tolstoj, diventando vegetariano. Dopo la laurea in Lettere, conseguita presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, trova un impiego nel 1930 come segretario proprio presso la Normale. Avendo però rifiutato di iscriversi al Partito nazionale fascista, viene licenziato e, nel corso degli anni Trenta, sopravvive facendo il precettore. Nel 1937 crea, insieme a Guido Calogero, il Movimento liberalsocialista, cui aderiscono anche Pietro Amendola, Norberto Bobbio, Pietro Ingrao, Ugo La Malfa. Arrestato per antifascismo nel 1942, Capitini trascorre alcuni mesi in carcere, ma, vista la sua estrema mitezza, viene quasi subito rilasciato (durante la prigionia si rifiuta di uccidere persino le cimici che ne infestano la cella!). Ritorna in carcere all’inizio del 1943, ma viene liberato dopo il 25 luglio.
Un pacifista scomodo – Nel 1944 Capitini fonda a Perugia il Centro di orientamento sociale, per sollecitare la partecipazione dal basso dei cittadini e promuovere la democrazia diretta. Nel Secondo dopoguerra egli ottiene la cattedra di Filosofia morale presso l’Università di Pisa e, in seguito, quella di Pedagogia presso l’Università di Cagliari, fondando il Centro di orientamento religioso, che, in contrasto con la gerarchia ecclesiastica e i partiti, si batte in favore dell’obiezione di coscienza al servizio militare (Pietro Pinna, primo obiettore italiano nel 1949, è un suo seguace). Negli anni Cinquanta, oltre a dar vita alla Società vegetariana italiana, Capitini stringe rapporti di amicizia con don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari, pur abbandonando definitivamente il cattolicesimo. Preoccupato dagli sviluppi della Guerra fredda, egli organizza il 24 settembre del 1961 la prima Marcia per la pace e la fratellanza fra i popoli tra Perugia e Assisi, creando il Movimento nonviolento e il periodico Azione nonviolenta.
La bandiera della pace – Ed è proprio durante la prima marcia della Pace che l’ormai celebre drappo a sette colori, simboleggiante la diversità che convive, dunque la pace, appare in Italia per la prima volta. Esso, peraltro, era già stato adoperato dai pacifisti anglosassoni che nel 1958, guidati dal filosofo Bertrand Russell, si radunarono ad Aldermaston per una protesta antinucleare. Pare che Capitini si rivolga ad alcune amiche perugine per spingerle a cucire, frettolosamente, delle strisce colorate da recare alla marcia. La prima bandiera della pace è attualmente conservata a Collevalenza, vicino a Todi, da Lanfranco Mencaroni, amico, compagno di carcere e collaboratore del filosofo pacifista. Infine, ottenuta la cattedra di Pedagogia all’Università di Perugia, Capitini trascorre gli ultimi anni di vita politicamente emarginato, criticando il sistema dei partiti e impegnandosi nella divulgazione delle idee pacifiste e nella costruzione di forme di gestione decentrata del potere.
Il superamento del “machiavellismo” – La tecnica della nonviolenza, scritto nel 1967, si presenta come una sorta di manuale del pacifismo militante, in cui riecheggiano gli insegnamenti del Mahatma Gandhi e l’esempio di Martin Luther King, in quegli anni protagonista del Movimento per i diritti civili negli Usa. Oltre a fornire utili informazioni sulle tecniche della «non collaborazione», della «disobbedienza civile», dei digiuni di protesta e dei sit-in, il libro s’incentra sul concetto gandhiano di Satyagraha: Capitini riflette sul giusto nesso tra mezzi e fine, proponendo il superamento del “machiavellismo”, alla luce dell’esperienza storica che ha dimostrato l’impossibilità di realizzare attraverso la violenza gli ideali, anche quelli più nobili (come testimoniano gli esiti autoritari della rivoluzione francese e di quella russa). Estremamente attuale ci sembra il suo motto «Durante la pace, prepara la pace», che ribalta il proverbio latino Si vis pacem, para bellum: in un’epoca come la nostra, martoriata dalle guerre e dalla violenza, è un monito che non va rimosso e che deve essere trasmesso alle nuove generazioni, se si vuole scongiurare l’autodistruzione del genere umano.
Le immagini: la bandiera della pace, una foto di Aldo Capitini e la copertina di un’antologia di suoi scritti.
Giuseppe Licandro
(LM MAGAZINE n. 19, 19 settembre 2011, supplemento a LucidaMente, anno VI, n. 69, settembre 2011)
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