Trent’anni fa l’inizio di Tangentopoli, gli attentati a Falcone e Borsellino e il crollo della lira segnarono una svolta nella storia del Belpaese, avviando una nuova era che si è rivelata per molti versi peggiore della precedente
Sono trascorsi trent’anni dal 1992, l’annus horribilis che decretò la fine della Prima Repubblica e avviò in Italia una nuova fase storica, contraddistinta dal peggioramento della qualità della vita e dall’involuzione delle istituzioni democratiche. Lo scioglimento del Patto di Varsavia e la rapida disgregazione dell’Unione sovietica – avvenuti nel 1991 – avevano indotto molti a credere che gli Stati uniti sarebbero rimasti per sempre l’unica superpotenza mondiale. Si trattava, invece, solo di un trionfo temporaneo: dopo un trentennio, infatti, gli Usa sono stati superati economicamente dalla Cina (vedi La Cina sorpassa Usa, prima economia al mondo, in https://italiareale.it), nonché eguagliati militarmente dalla Russia di Vladimir Putin, che il 24 febbraio scorso – noncurante delle minacce statunitensi e delle prevedibili ritorsioni internazionali – non ha esitato ad aggredire brutalmente l’Ucraina.
La crisi della Prima Repubblica va comunque correlata alla fine della Guerra fredda: nel 1992, infatti, vennero meno le ragioni storiche che avevano sancito – a partire dal 1947 – la supremazia politica della Democrazia cristiana (Dc) e l’esclusione dal governo del Partito comunista italiano (Pci). In quel drammatico 1992 l’Italia fu sconvolta da un’incalzante serie di avvenimenti che si susseguirono a ritmo impressionante. Il 6 gennaio la Sacra corona unita fece esplodere una bomba lungo la ferrovia pugliese, all’altezza di Surbo, ma – miracolosamente – non ci furono vittime. Il 30 gennaio la Corte suprema di Cassazione emise la sentenza definitiva del maxiprocesso di Palermo con la condanna all’ergastolo di 19 capi di Cosa nostra – tra cui Michele Greco, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina – e a lunghe pene detentive di altri 327 imputati, scatenando «l’ira funesta» dei boss latitanti (vedi Il maxiprocesso a Cosa nostra, in www.fondazionefalcone.org). Il 7 febbraio fu firmato a Maastricht il Trattato sull’Unione europea, che definì i rigidi parametri per entrare nella futura Ue; dieci giorni più tardi fu arrestato Mario Chiesa, direttore del Pio Albergo Trivulzio di Milano ed esponente del Partito socialista italiano (Psi). Il politico milanese fu trovato in possesso da Antonio Di Pietro, magistrato inquirente della Procura della Repubblica, di una tangente di 7 milioni di lire, appena versatagli dall’imprenditore Luca Magni (come prima tranche di una mazzetta di 14 milioni di lire), e tentò poi invano di occultare una seconda tangente di 37 milioni di lire che gettò nel water del bagno del proprio ufficio.
L’inchiesta giudiziaria “Mani pulite” riguardò soprattutto i vertici dei quattro principali partiti di governo (Dc, Partito liberale italiano, Partito socialdemocratico italiano e Psi), ma coinvolse pure alcuni esponenti del Partito democratico della sinistra (Pds, ex Pci), della Lega Nord (Ln), del Partito repubblicano italiano (Pri) e del Movimento sociale italiano (Msi, di matrice neofascista) (vedi Tangentopoli, vent’anni dopo: la politica è cambiata. In peggio). Il 12 marzo Cosa nostra uccise a Palermo Salvo Lima, deputato europeo e capo della corrente andreottiana della Dc siciliana. Fu il primo di una lunga serie di delitti mafiosi che insanguinò l’Italia per un biennio e avviò anche la “Trattativa stato-mafia”, la quale coinvolse boss, politici e ufficiali dei Reparti operativi speciali (Ros), producendo effetti devastanti: in seguito alla trattativa, infatti, i capi di Cosa nostra intensificarono gli attentati, perché «si rafforzarono nell’idea che la strada delle bombe pagasse più di ogni altra» (Nino Di Matteo-Salvo Palazzolo, Collusi, Rizzoli). Le elezioni politiche – svoltesi il 5 e il 6 aprile – sancirono un arretramento dei partiti di governo (che ottennero comunque la maggioranza dei seggi parlamentari) e un buon risultato per le forze di opposizione (Federazione dei Verdi, La Rete, Lista Pannella, Ln, Msi, Partito della rifondazione comunista, Pds, Pri).
La crisi della Prima Repubblica divenne evidente verso la fine di aprile, quando si dimise (con due mesi di anticipo sulla scadenza del mandato) il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che aveva già abbandonato la Dc tre mesi prima. Le elezioni presidenziali iniziarono il 13 maggio e si protrassero fino al 25 maggio: solo al 16° scrutinio, infatti, Oscar Luigi Scalfaro (presidente della Camera in carica) superò il quorum e venne eletto con 672 voti. A determinare la fine dei veti contrapposti – che avevano già bruciato le candidature di Giovanni Conso, Arnaldo Forlani, Nilde Iotti e Giuliano Vassalli – fu la strage di Capaci del 23 maggio, nella quale persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, insieme a tre agenti della scorta (Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani). Lo sgomento in tutto il Belpaese fu enorme e la fiducia nei partiti di governo cominciò a sgretolarsi: alle elezioni comunali e provinciali del 7 giugno, infatti, Dc e Psi persero alcuni milioni di voti che furono in gran parte intercettati da Ln, Msi e Pds. Lo sdegno popolare divenne ancora più forte dopo la strage di via D’Amelio, che il 19 luglio costò la vita al giudice Paolo Borsellino e a cinque agenti della sua scorta (Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina).
La famiglia Borsellino rifiutò i funerali di Stato, mentre una durissima contestazione si scatenò nei confronti del presidente Scalfaro e di altri politici presenti all’esequie dei cinque poliziotti, che si svolsero nella cattedrale di Palermo (vedi La rabbia di Palermo, in www.laprovinciacr.it). Il governo italiano – allora guidato da Giuliano Amato – provò a reagire alla dilagante violenza criminale e varò alcune severe misure antimafia (tra cui il secondo comma dell’articolo 41-bis del Codice penale, che istituì il carcere duro per i boss mafiosi), facendo trasferire oltre cento esponenti di Cosa nostra nel penitenziario di massima sicurezza dell’Asinara.
Dopo il 1981 il debito pubblico italiano era schizzato alle stelle, anche per le discutibili scelte compiute dal ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e dal governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, che avevano separato Bankitalia dal Ministero del Tesoro, provocando – tra l’altro – un costante aumento dei tassi d’interesse sui titoli di stato (vedi Domenico Moro, Quando, come e perché s’impennò il debito pubblico italiano, in web.rifondazione.it). Il governo Amato provò a risanare il grave dissesto delle finanze pubbliche e introdusse nel luglio 1992 una pesante tassa patrimoniale sui conti correnti dei cittadini italiani che fece incassare allo stato oltre 11 miliardi di lire. Tuttavia, la situazione economica precipitò nel settembre successivo, quando la lira fu oggetto di una speculazione finanziaria che arricchì soprattutto l’imprenditore statunitense George Soros e ne causò la forte svalutazione. Un giorno particolarmente drammatico fu il 16 settembre (il “mercoledì nero”), quando la lira e la sterlina furono costrette a uscire dal Sistema monetario europeo (Sme). Due settimane dopo il Consiglio dei ministri approvò la legge finanziaria del 1993, che introdusse ulteriori misure restrittive per ridurre il deficit di bilancio (blocco dei pensionamenti e dei contratti del pubblico impiego, tagli alla sanità, ecc.), scatenando un’ondata di proteste popolari culminate nello sciopero generale di quattro ore del 13 ottobre (indetto dalla Confederazione generale italiana del lavoro, dalla Confederazione italiana sindacati lavoratori e dall’Unione italiana del lavoro). Il governo italiano, inoltre, fu costretto a chiedere ingenti prestiti alla Comunità economica europea per consentire il successivo rientro della lira nello Sme.
Il 1992 si chiuse col botto finale: il 15 dicembre, infatti, fu indagato dalla Procura di Milano il segretario del Psi Bettino Craxi, che in seguito verrà condannato – con due sentenze passate in giudicato – a 10 anni di reclusione (per corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico). Il leader socialista, tuttavia, riuscì a fuggire prima dei verdetti definitivi e trovò riparo ad Hammamet in Tunisia. Dal 1994 in poi si alternarono alla guida del Belpaese le coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra (con l’intermezzo di alcuni governi tecnici) che, obbedendo ai diktat neoliberisti della Commissione europea, smantellarono gradualmente il welfare state (abbassando il tenore di vita della popolazione italiana), ridussero i diritti dei lavoratori e dequalificarono i servizi pubblici (sanità, scuola, trasporti, ecc.).
A conclusione della nostra breve disamina storica, ricordiamo che proprio nel 1992 si crearono in Italia le condizioni politiche più idonee per attuare il piano oligarchico a suo tempo ideato da Licio Gelli, capo della Loggia massonica P2. Il programma gelliano – delineato nel Memorandum sulla situazione politica in Italia, nello Schema R e nel Piano di rinascita democratica, tre documenti segreti scovati nel 1981 dagli inquirenti in una valigia di Maria Grazia Gelli, figlia del “Maestro venerabile” – puntava «a un sistema a centralità non più parlamentare ma dell’esecutivo, retto dal voto popolare e da un sistema elettorale maggioritario, ma, soprattutto, con poteri di controllo assai limitati» [Aldo Giannuli, Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi), Ponte alle Grazie]. Tale progetto dalle sfumature eversive è stato in gran parte realizzato negli ultimi trent’anni, durante i quali è avvenuto il progressivo ridimensionamento del Parlamento e il corrispettivo rafforzamento del potere esecutivo (vedi Il ticket Draghi-Mattarella ulteriore tracollo per la democrazia italiana).
Giuseppe Licandro
(LucidaMente 3000, anno XVII, n. 197, maggio 2022)