Milioni di fan attoniti per la prematura scomparsa della popstar americana. Tante le riflessioni da fare
Il corpo dell’icona della musica pop americana Whitney Houston è stato trovato privo di vita, l’11 febbraio 2012, in una stanza del Beverly Hilton di Los Angeles. In attesa che le circostanze del decesso vengano chiarite – si ipotizza la morte per annegamento – il mondo dello spettacolo e i fans della cantante hanno appreso la notizia con sgomento: dopo quella di Amy Winehouse (vedi Viviana Viviani, Il popolo di Facebook ignora Oslo e omaggia Amy), la caduta di un’altra stella dello star system è avvenuta sotto gli occhi di persone interessate più a farne oggetto di gossip che ad aiutarla a uscire da un tunnel che conduce inevitabilmente alla morte.
E, proprio come la giovanissima Winehouse, la Houston si è spenta in una solitudine che deve far riflettere, all’interno di un ambiente anonimo: a farle compagnia negli ultimi momenti di vita non ci sono state che la depressione e una prescrizione di medicinali di cui soltanto l’autopsia stabilirà l’assunzione. La cantante, apparsa l’ultima volta in pubblico tre giorni prima del decesso, l’indomani avrebbe dovuto partecipare alla cerimonia del Grammy Award, l’Oscar della musica, che nel 1986 l’aveva consacrata come la nuova regina del soul pop mondiale: una coincidenza che, a séguito della sua scomparsa, lascia tutti senza parole.
Nel 1987, al culmine della sua popolarità, la Houston aveva partecipato alla trentasettesima edizione del Festival della canzone italiana, interpretando con successo All at once: il pubblico, al termine di una lunga ovazione, le aveva chiesto di replicare l’esibizione come mai era avvenuto sul palco del teatro Ariston di Sanremo. La carriera musicale dell’artista, durata dal 1985 al 2009 – un arco temporale assai modesto rispetto al talento che possedeva –, le aveva regalato dischi d’oro e di platino: con soli sette album registrati, aveva venduto più di 170 milioni di copie. Canzoni come Saving all my love for you, Greatest love of all, I wanna dance with somebody (who loves me), I will always love you e la già citata All at once hanno contribuito a fare la storia della musica popolare del Ventesimo secolo. Nel 1992, la Houston aveva interpretato se stessa nel film The bodyguard, al fianco di Kevin Costner: una storia che oggi appare come una triste beffa, avendo proprio la sua guardia del corpo tentato invano di rianimarla prima che i medici ne constatassero il decesso.
Whitney Houston aveva ricevuto tutto dalla vita: il talento in una voce unica nel suo genere e una bellezza elegante e autentica che, per emergere, non aveva bisogno di espedienti. Inoltre, era figlia della cantante gospel Cissy Houston, cugina di Dionne Warwick e figlioccia di Aretha Franklin: possedeva quindi tutti i requisiti previsti per una carriera artistica lunga e florida. Probabilmente, alla Houston è mancato l’unico ingrediente necessario per sopravvivere al successo: la fiducia in se stessa. Così, al culmine della popolarità, ha consegnato la propria vita nelle mani di un uomo sbagliato – il cantante Bobby Brown, suo marito dal 1992 al 2006 – e nelle illusorie sensazioni di grandezza che sembrano regalare le sostanze stupefacenti prima di far cadere in un tunnel senza uscita.
La donna, che lottava da anni contro la tossicodipendenza e l’alcoolismo, aveva dato la propria infelicità in pasto a un pubblico affamato di gossip e – in coppia col marito – aveva partecipato perfino a un reality. Tutto questo ci deve offrire spunti di riflessione sulla prioritaria necessità di salvaguardare la dignità umana di fronte alla sete di scoop di spettatori che vogliono essere stupiti a ogni costo. Alla Houston non sono bastate la consapevolezza del problema e la ferma volontà di uscirne: a soli 48 anni si è spenta per sempre una stella del firmamento della musica mondiale, una star che vogliamo ricordare mentre intona, sorridente, uno dei suoi indimenticabili acuti.
Le immagini: una raccolta discografica di Whitney Houston e la locandina di The bodyguard.
Emanuela Susmel
(LM MAGAZINE n. 22, 14 febbraio 2012, supplemento a LucidaMente, anno VII, n. 74, febbraio 2012)
Articolo bruttino, Emanuela. La Houston meritava uno sguardo critico dietro alle quinte della star-system degli USA. Il fatto che abbia avuto un grande successo non significa essere una grande cantante, significa avere alle spalle manager che pompano soldi per guadagnare il massimo in poco tempo. Investo tot per avere totx 1.000 in un anno. Poco importa se il tuo “prodotto” abbia capacità, forza e senso autocritico, basta che venda, e subito. La Houston si lascia dietro un’eredità musicale di secondo ordine e un film inguardabile.
Può darsi che la poveretta se ne sia accorta, o che qualcuno le abbia detto la verità. Ma ormai era tardi.
Potevi scrivere sull’hype del suo matrimonio, dopo che aveva dichiarato di volersi sposare vergine, per poi finire con un uomo che la picchiava dopo una settimana di matrimonio.
Le droghe, in questo ambito, non sono quasi mai la causa. Sono una conseguenza logica. Un giorno ti svegli e capisci che sei stata un burattino nelle mani di gente senza scrupoli, e che non hai i mezzi e la bravura per rimanere in cima.
Peccato, poteva essere la stoffa per un grande articolo
Ciao
G
Ricordo solamente una canzone tristissima di Whitney – ” I’ll Fly Away”. Adesso, ha volato via.
Mi faceva ricordare “The Time Has Come” la canzone reggae del Slim Smith. Quando la sentito, la sua voce sembrava cosi piena di angoscia che ero sicuro che era già morte; che, anni dopo, ho scoperto che é vero.
Ci vuole rileggere ” Suicidio” di Emile Durheim, che descriva come una società antipatica ed ossessionata di soldi, porta tante personi sul orlo della desperazione. Invece del culto narcissitico del Facebook, ci vuole più website che trattano delli problemi attuali del popolo, ed anche offre alcune soluzioni. Joe Hill ha detto, primo era giustiziato ” Don’t Mourn. Organise! “Non porta il lutto – organizzare!” Forse, conviene porta il lutto ed organizzare.
Incredibile quanto le seghe mentali degli “intellettuali” possano rovinare il semplice ricordo di una fra le più grandi cantanti americane (e non solo). Non parlo dell’articolo della Susmel, ma del clima generale.
Incredibile ancor di più quanto le critiche di certi bigotti, più papisti del papa, riescano a far capire fino a che punto la religione e la morale tradizionale facciano male alle persone, all’arte e alla società. Incredibile quanto l’interpretazione e la critica a oltranza riescano ad ammorbare l’aria in un momento che dovrebbe essere di solo puro lutto per la mancanza di colui/colei che ha creato.
Ognuno di noi, alla fine della propria vita, avrà commesso errori, sarà caduto vittima di qualcuno, avrà fatto vittime a sua volta, avrà rimpianti, lascerà dietro la sua scia ricordi positivi e negativi, ma oltre tutto questo ci sarà ciò che abbiamo fatto con il nostro ingegno, la nostra bravura, la nostra capacità di creare qualcosa di assolutamente “nostro”. Questo ha saputo fare una cantante che lascia un patrimonio canoro e musicale di tutto rispetto.
Il danno non è la droga, nemmeno l’alcool (sono cose che accadono da sempre a persone note e meno note per le quali bisogna costruire una società equa e più giusta e non dominata dalle banche dagli interessi e dal dominio di nazioni sulle altre), il danno saranno le generazioni che non lasceranno, dietro la loro scia vitale, nessun patrimonio unico e irripetibile come quello di questa meravigliosa cantante.